7° seminario Decrescita: le vecchie ragioni di una nuova sfida al libero mercato prof. Nicola Iannello - Luiss Guido Carli, Roma 13 marzo 2015 - UMG Catanzaro, facoltà di Giurisprudenza
L’arsenale degli avversari del liberalismo non è mai vuoto. Anche se le armi si rivelano spuntate e le munizioni fanno cilecca, sempre nuove se ne aggiungono. La proposta della “decrescita” ha guadagnato la ribalta del dibattito pubblico, soprattutto per opera di Serge Latouche che la qualifica con l’aggettivo serena (quella felice è il marchio di Maurizio Pallante). La condanna del libero mercato da parte di Latouche, infatti, affonda le radici in una tradizione di stampo collettivistico che ha sempre rifiutato la libertà individuale di scelta. La decrescita si rivela così come l’ennesima incarnazione di un filone di pensiero che mette in discussione le acquisizioni della modernità, senza fornire un’alternativa credibile, al di là di proclamazioni generiche e a volte anche ridicole.
Che cos’è la decrescita? In estrema sintesi, si tratta di una specie di ecosocialismo. Lo sviluppo economico è messo in discussione in quanto tale: una crescita infinita non ha senso in un pianeta finito. Il livello di produzione e consumi raggiunto mette in crisi le capacità di riproduzione della biosfera. Latouche predica quindi l’uscita dall’economia, dal capitalismo, dalla modernità, opponendosi all’occidentalizzazione del mondo. Il nostro immaginario è stato colonizzato da concetti che vengono spacciati per naturali, ovvero astorici, mentre si tratta di ridare spazio al politico e al sociale. La società moderna è basata sulla dismisura, sulla distruzione sociale e ambientale, sul calcolo economico e l’accumulazione di capitale; ne conseguono concorrenza spietata, disuguaglianze, saccheggio della natura, omnimercificazione del mondo. Secondo Latouche l’economia è un’invenzione moderna, un modo di pensare il rapporto tra l’uomo e il mondo ignoto alle civiltà precedenti e alle culture altre. Falso è l’assioma della scarsità, provvedendo la natura in modo spontaneo ai nostri bisogni, come testimonia la vita dei nostri antenati dell’età della pietra. Sulla base di queste premesse di stampo rousseauiano, lo studioso francese può sferrare il suo attacco contro i diritti di proprietà: la proprietà privata non è una risposta al problema della scarsità ma la sua causa. La recinzione delle terre comuni (enclosures) ha creato una miseria che prima non c’era. Jean-Jacques Rousseau e Karl Marx vanno a braccetto, in un quadro che farebbe la felicità degli attualli sostenitori dei “beni comuni”. Nel mirino di Latouche c’è la megamacchina della globalizzazione, in cui un’oligarchia plutocratica di aziende multinazionali e lobby muove i governi nazionali come burattini.
I riferimenti teorici di Latouche annoverano alcuni classici: Émile Durkheim e l’anomia delle società industrializzate, l’antropologo del dono Marcel Mauss, il Karl Polanyi della Grande trasformazione. Spicca anche una serie di maîtres à penser più vicini a noi: Cornelius Castoriadis, Nicholas Georgescu-Roegen, Ivan Illich, André Gorz. Latouche riesce a citare ancora il Club di Roma e il suo sciagurato rapporto sui limiti dello sviluppo. Cosa c’è oltre la critica dell’esistente? Questi i punti del “programma”, enunciati in La scommessa della decrescita (2006) e Breve trattato sulla decrescita serena (2006): tornare alla produzione materiale degli anni ’60-’70; internalizzare i costi di trasporto aumentanto il prezzo dei carburanti (Latouche vagheggia esplicitamente una società senz’auto né aerei...); rilocalizzare le attività; incentivare l’agricoltura contadina al punto da diventare un settore che occupi il 10-20% della popolazione, contro il 3-5% odierno; trasformare l’aumento di produttività in riduzione del tempo di lavoro e creazione di impieghi (Latouche auspica una giornata lavorativa di due ore...); produrre beni relazionali, ovvero non misurati economicamente; ridurre lo spreco di energia di un fattore 4; penalizzare le spese di pubblicità; una moratoria sull’innovazione tecnologica; riappropriarsi del denaro mediante monete regionali.
Questo programma fa il paio con le otto “erre”: rivalutare, riconcettualizzare, ristrutturare, ridistribuire, rilocalizzare, ridurre, riutilizzare, riciclare. Tutta questa riflessione mette capo alle linee guida di una società della decrescita: nessun debito pubblico, in quanto le entrate coprirebbero le spese; imposte dirette progressive, con fissazione di un reddito massimo legale; imposte indirette sui beni di lusso; acqua, gas, ecc. a prezzo progressivo; tassa patrimoniale. Il tutto con una clausola di salvaguardia geniale: in caso di deficit, emissione di moneta! In sostanza, la decrescita di Latouche è una proposta di una povertà concettuale sconcertante, tanto da domandarsi come ha fatto un’idea del genere ad attrarre tanti seguaci.
Il prof. Nicola Iannello giornalista e fellow dell’Istituto Bruno Leoni, si è laureato e addottorato in Scienze politiche a Pisa. Ha insegnato Sociologia economica alla Lumsa di Roma; collabora con la cattedra di Metodologia delle scienze sociali presso la Luiss Guido Carli di Roma. È autore di vari saggi sul pensiero liberale e libertario contemporaneo. Ha pubblicato l’antologia “La società senza Stato. I fondatori del pensiero libertario” (Leonardo Facco Editore, 2004). Ha curato l’edizione italiana di opere di Frédéric Bastiat e di Ayn Rand. Con Lorenzo Infantino, ha curato il volume collettaneo “Ludwig von Mises: le scienze sociali nella Grande Vienna” (2004). Per IBL Libri ha curato l’e-book “Nessuna anarchia, poco Stato e molta utopia. Roberto Nozick quarant’anni dopo”. Insieme a Carlo Lottieri ha appena pubblicato “Secessione. Una prospettiva liberale” (Brescia, La Scuola).