1° seminario - lectio magistralis Il liberalismo come cooperazione sociale prof. Lorenzo Infantino - Luiss "Guido Carli" - Roma 25 gennaio 2013 - Camera di Commercio di Catanzaro
È noto che l’inventariazione e la soluzione dei problemi della vita individuale e collettiva possono essere affidate all’azione dei governati o possono essere fatte proprie dai governanti. La teoria liberale imbocca la prima delle due strade. Sottrae quindi la cooperazione volontaria alle prescrizioni del potere pubblico e ne fa l’oggetto della scelta individuale. Ciò significa che la limitazione della sfera d’intervento dei pubblici poteri è finalizzata al “recupero” di un estesissimo territorio, su cui rendere possibile l’esercizio dell’autonomia decisionale dei cittadini.
La nascita e il primo sviluppo delle scienze sociali sono strettamente legati al tentativo di spiegare la possibilità della cooperazione volontaria. Il che ovviamente coincide con l’identificazione delle condizioni che impediscono o limitano l’arbitrio e l’uso della coercizione. Non a caso il diritto ci ha insegnato che le norme generali e astratte delimitano i confini fra le azioni; l’economia ci ha mostrato come il prezzo co-adatti domanda e offerta; la sociologia ha gettato luce sulle “forme” dello scambio sociale; la scienza politica ha apprestato strumenti per circoscrivere la sfera d’intervento dei governanti. Ossia: ogni singola scienza sociale ha contribuito all’individuazione di un habitat capace di permettere la cooperazione volontaria, la quale limita l’arbitrio interno ai rapporti intersoggettivi (attraverso la libertà individuale di scelta) e rende minima la coercizione (mediante la severa riduzione dei compiti assegnati ai governanti). L’allocazione competitiva delle risorse prende il posto di quella autoritativa. Ecco perché la nascita e il primo sviluppo delle scienze sociali sono intimamente legate all’affermazione del liberalismo, che è appunto l’istituzionalizzazione della libertà individuale di scelta, conseguita tramite la limitazione e il controllo del potere pubblico.
Il liberalismo non punta tuttavia all’estinzione della presenza pubblica. Come Hayek ha precisato, «il liberalismo si distingue nettamente dall’anarchismo e riconosce che, se tutti devono essere quanto più liberi, la coercizione non può essere interamente eliminata, ma soltanto ridotta al minimo indispensabile, per impedire a chicchessia […] di esercitare una coercizione arbitraria a danno di altri». Il potere pubblico è pertanto insopprimibile. Deve però limitarsi a svolgere una funzione di servizio nei confronti della libera cooperazione sociale. «Né Locke, né Hume, né Smith, né Burke […] si sono mai posti a difesa di un completo laissez faire, che […] in senso letterale non è mai stato affermato da nessuno degli economisti classici inglesi. […] la loro posizione non è stata mai contraria allo Stato come tale, né incline all’anarchia, che è la conseguenza logica della dottrina razionalistica del laissez faire; […] ha preso in considerazione tanto le adeguate funzioni quanto i limiti dell’azione dello Stato»
Il mito del Grande Legislatore spinge a cercare qualità (quali l’onniscienza o la perfezione morale) che gli uomini non hanno; o spinge a rendere permanente quel che l’essere umano può solo «occasionalmente fare». Ma non è qui la soluzione. Anzi, conferire il potere sulla scorta esclusiva di presunte qualità personali è ciò che crea il problema: perché quelle presunte qualità vengono utilizzate a giustificazione di un potere privo di limiti. Occorre allora avere regole e controlli, che riducano al minimo la possibilità dei governanti di danneggiare i governati. La questione è impedire all’uomo di fare il peggio quando è al peggio, condizione a cui nessun essere umano può sottrarsi. Ecco quindi Hume affermare che le costituzioni devono essere fatte in modo tale che, tramite «freni e controlli», anche un «furfante» sia messo nella condizione di recare il minor danno possibile. Come dire che bisogna voltare le spalle al “governo degli uomini” e passare al “governo della legge”. Il che non è ovviamente un’idea nuova nella storia dell’umanità. Basti solo pensare a quanto in merito è stato scritto da Aristotele o da Cicerone nell’antichità e da Locke nella fase storica che ha preceduto Mandeville e i moralisti scozzesi. Le argomentazioni svolte da quest’ultimo gruppo di autori hanno però un’energia nuova: perché al mito del Grande Legislatore essi hanno opposto delle sistematiche ragioni gnoseologiche. Gli uomini sono fallibili. E non c’è “causa” che possa cambiare la loro condizione. Il che implica l’accettazione del processo di secolarizzazione, cioè a dire della separazione fra politica e religione e anche della separazione fra la politica e tutte le concezioni finalistiche della storia. È pertanto necessario abbandonare l’idea che possa esistere un “punto di vista privilegiato sul mondo”, una fonte superiore della conoscenza, pubblicamente accettata come tale. E non resta che affidarsi alla scelta individuale e all’esteso procedimento di scoperta da questa resa possibile.
Il prof. Lorenzo Infantino è titolare della cattedra di Filosofia delle Scienze Sociali nella Facoltà di Economia della LUISS Guido Carli di Roma. È stato visiting Professor presso la Oxford University, la New York University, la Universidad Rey Juan Carlos di Madrid. È autore di opere tradotte in inglese, spagnolo, russo. Fra esse, si ricordano: L’ordine senza piano (Roma, 1995, 1998, 2008), Ignoranza e libertà (Soveria Mannelli, 1999), Individualismo, mercato e storia delle idee (Soveria Mannelli, 2008). È considerato, a livello internazionale, uno dei maggiori conoscitori della Scuola austriaca di economia. Presso la casa editrice Rubbettino, dirige la collana “Biblioteca Austriaca”, dove sono raccolte le maggiori opere di Carl Menger, Ludwig von Mises, Friedrich A. von Hayek.